E venne la notte
post pubblicato in
diario, il 21 maggio 2010
C’era un’Italia che non c’è più. C’era un tempo in
cui la politica scopriva nuove forme di partecipazione e le rivendicazioni del
movimento operaio trovavano accoglienza attraverso le Istituzioni. C’era un
tempo in cui vecchi mestieri cedevano il passo ai nuovi senza che il lavoro,
nelle sue varie espressioni, perdesse di significato. La politica cercava il
contatto con i cittadini, individuava nuovi percorsi per risolvere problemi di
interesse generale e prestava orecchio alla critica. L’economia del Paese era
legata alla produzione reale e gran parte delle attività avevano un senso
compiuto sia sotto il profilo personale che sotto il profilo della crescita
comune. Anche chi aveva lasciato la campagna per lavorare alla catena di
montaggio si sentiva in qualche maniera realizzato. La politica non era avvertita
come mero controllo e strumento privilegiato per massimizzare i propri vantaggi
personali, badava anche alla costruzione di opportunità per tutti e teneva
nella giusta considerazione l’opinione pubblica. Esisteva un filo di coerenza
che legava governanti e governati. Tutti si sentivano artefici della propria
vita e questo a prescindere dalla collocazione di classe. Sia l’intellettuale
che l’operaio, sia il professionista che il dipendente, sia il funzionario che
il metalmeccanico si sentivano parte integrante di un disegno che accomunava
identitariamente. Anche coloro che passavano la giornata lavorativa ad
assemblare prodotti sulle linee di montaggio si sentivano inseriti in un
progetto nazionale audace ed erano orgogliosi di lavorare in fabbrica. Poi la
politica è diventata quella della “casta”, l’economia si è trasformata in
capitalismo belluino e la finanza ha esteso il dominio su tutti i mercati. Oggi
il
punto dolente riguarda proprio il lavoro, la recessione occupazionale, la
precarietà coltivata e diffusa oltre il tollerabile. La crisi economica sta accentuando le disuguaglianze ed approfondendo
le fratture. In maniera sempre più accelerata abbiamo subito gli scompigli
prodotti da un’idea di lavoro tutta tesa a massimizzare il profitto nel breve
termine. Nella bufera finanziaria globale sarebbe più urgente parlare di
questo, ma il Governo ha pensato bene di mettere a punto addirittura una norma
per consentire il “licenziamento a voce” dei precari. Quando ancora c’erano
bottai, calzolai, carpentieri, contadini, ebanisti, fabbri, falegnami, maniscalchi,
quando il sapere era nelle mani di coloro che lavoravano con l’esperienza trasmessa
da padre in figlio, a garanzia di un futuro dove il senso della vita risiedeva
nella semplice quotidianità, il tempo era scandito dal suono delle campane.
Prima il lavoro, nella Repubblica Italiana, veniva considerato un prerequisito
di libertà e di dignità sia individuale che sociale. Oggi il tempo è scandito
dai pressanti bisogni dei governanti, la libertà viene intesa come gestione
arbitraria delle risorse comuni e la dignità delle persone viene calpestata
attraverso una rappresentazione mitica della realtà. Soprusi, furti ed espropriazioni
si compiono all’ombra della democrazia, quella democrazia che oggi, attraverso i
suoi nuovi alfieri, va all’attacco degli editori, della stampa e del web per
mettere il tappo definitivo sull’informazione. D’altronde, se il precariato è
la nuova dimensione, è bene che anche i giornalisti possano sperimentare le
opportunità flessibili offerte a tutti quei soggetti intraprendenti, creativi e
adattabili. Esistono tante possibilità di riciclarsi come pubblicitario, promotore
finanziario, analista, broker, toilet doctor, dog sitter, personal shopper, etc.
Perché il Manovratore dovrebbe sopportare ancora la presenza di qualche
fastidioso back seat driver? Magari per omaggiare il peggiore americanismo di
certi politici nostrani alcuni giornalisti potrebbero dedicarsi alla carriera
del divorce planner o a quella del divorce party. La strada di chi non intende
fare marchette è ormai lastricata di chiodi. Non essendo avvezzi ai paradigmi
dell’ipocrisia dobbiamo riconoscere che, in alcuni casi, l’attività
giornalistica è scaduta nel sensazionalismo pruriginoso o è stata asservita al
protagonismo mediatico di chi ha le spalle coperte. Comunque le norme scritte dal
ceto regnante non servono a tutelare la riservatezza degli Italiani, al cui
mandato “plebiscitario” si rimanda ogni azione di governo, ma molto più
semplicemente servono solo ad oscurare i misfatti del Palazzo. La macchina
della Giustizia è stata messa a punto per anni con complicità politiche trasversali
e dunque già garantisce che i processi dei colletti bianchi non arrivino a
sentenza o a giusta condanna. Sed non satiatus il Duce, con il varo delle leggi
pidiellissime preparate e votate dalle sue milizie, otterrà che nessun suddito
potrà più accedere alle “segrete cose” di cui si occupa chi ha le chiavi della
dispensa. Nessuno potrà più sapere se si sta rivolgendo ad un medico o a un
macellaio, se sta acquistando una casa costruita in cemento o in sabbia, se si
serve di una compagnia aerea affidabile o di una che non lo è, se la banca di
cui è cliente segue un qualche criterio di eticità o ricicla soldi della
ndrangheta. Il putridume materiale e morale in cui siamo immersi sarà nascosto
dietro la cortina di silenzio imposta a chiunque voglia scriverne e,
segnatamente, a quel giornalismo d’inchiesta perigliosamente sopravvissuto fino
ad oggi. Mentre qualche istrione si è riservato il diritto di latrare senza
allontanarsi dalla ciotola, altri hanno operato al fine di erodere tutti i
diritti collettivi minimi. Solo fuggendo da questo Paese le nuove generazioni
potranno intravedere frammenti di futuro.
Antonio
Bertinelli 21/5/2010